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DI COME IAN CURTIS ANCORA CI RACCONTA.

Immagine del redattore: Ass. TramoontanaAss. Tramoontana

A sedici anni avevo un gruppo post-punk, in anticipo su Nicolò Contessa, e facevamo il tributo ai Joy Division, ci chiamavamo Walked in line, senza soggetto. Ancora erano un gruppo dei bassifondi oscuri della controcultura, uno tra i dischi dei vecchi punker della provincia marchigiana, poi abbiamo visto le magliette di Unknown Pleasure, ma già eravamo sciolti. Ci sembrava sensato fare una tribute band ai Joy Division, ché non era come fare i Deep Purple, ma qualcosa di problematico, con Peter Hook che ci spiegava: dal fuck you del punk al we’re fucked del post-punk.


 

L’adolescenza è sempre una brutta bestia, Robert Smith, «It doesn't matter if we all die» nelle cuffiette arricciate lungo le statali per andare a scuola e la nostra auto-narrazione tragica. Mi ricordo del Groove di Potenza Picena, di vecchie cascine abbandonate nelle campagne, del Moonlight festival di Fano ed eravamo giovani e imbarazzanti, ci ascoltavano in silenzio. Era stato difficile riprodurne il suono, avvicinarci a quella sporcizia, molto più difficile che suonarli tecnicamente e Johnny, inglese naturalizzato marchigiano, con un rispetto monastico si rifiutava di scimmiottare l’epilepsy-dance di Curtis, perché del dolore avevamo riguardo. Oggi che quarant’anni sono trascorsi dal suo suicidio e noi siamo dispersi per il mondo e maturi rifletto sul perché di tanto rapimento, ci sentivamo fottuti, romantici nel commiserarci e darci un tono, quell’abisso magnetico negli occhi di Ian con la sigaretta in bocca, il bianco dell’inverno velenoso di Macclesfield. Erano gli anni della nuova new wave, gli Interpol, White Lies, Editors e compagnia cantante, e dunque tornava a farsi sentire quella malinconia, di burro ora, ne eravamo coscienti, non più secca da chiuderti la gola, qualcosa nei Joy Division non era replicabile.



Ho poi preso gli studi umanistici, letto della filosofia, uno dei nostri prova ad uccidersi, un altro mi ruba un pedale, me lo rompe, sparisce in Europa, io mi faccio una famiglia nuova a Bologna, scrivo poesie. Ogni 18 maggio sfodero il disco nero e me lo ascolto tutto nel rituale della mancanza. Oggi che quarant’anni sono trascorsi dal suo suicidio e guardo la diretta Facebook del concerto di questo Hook sformato e triste, mi dico che nel fisico sta la differenza, la disperata vitalità del post-punk dei Joy Division, la sciattezza giovane e brutale, tenera, contro le solide ideologie dei Cure, Bauhaus, Siouxsie and the Banshees, e neanche quell’ironia tutta postmoderna di un Steve Albini e la sua rabbia supersonica. Nella stanchezza di Ian Curtis vedo la stanchezza di noi in corsa, vedo la nostra impossibilità di stanchezza, nei pantaloni marroni a vita altissima rivedo le vecchie foto dei miei genitori e la loro, la nostra giovinezza, nel sudore e lo sguardo spaccato, trovo la narrazione della nostra formazione: «We saw ourselves now as we never had seen/Portrayal of the trauma and degeneration/The sorrows we suffered and never were free/Where have they been?»


 

Ma non lo riesco a capire davvero Ian, mi avvicino empaticamente all’orlo della malattia e perdo l’orientamento, il mostro finale, il grande male, incolore ci impedisce di dire altro. Nel giradischi andava The Idiot, paradossale, proprio ne L’idiota di Dostoevskij queste parole, «si sa che gli attacchi di epilessia, del vero e proprio mal caduco, sopravvengono improvvisamente. In quell'attimo tutto il volto si deforma improvvisamente e orribilmente, e specialmente lo sguardo. Gli spasimi e le convulsioni scuotono tutto il corpo e sconvolgono le fattezze del volto. Dal petto si sprigiona un urlo spaventoso, indescrivibile, che non somiglia a null'altro; è come se tutto ciò che c'è di umano in quell'uomo scompaia con quell'urlo, e per chi assista a quello spettacolo è assolutamente impossibile, o perlomeno molto difficile, ammettere o perfino immaginarsi che sia la stessa persona a urlare in quel modo. Sembra addirittura che a gridare sia qualcun altro, qualcuno che si nasconde dentro quell'uomo. Perlomeno, sono numerosi coloro che hanno cercato di spiegare in tal modo l'impressione provata a quella vista, ma in molti altri la vista di un uomo in preda a un attacco di mal caduco determina un inesprimibile, intollerabile terrore, che ha in sé qualcosa addirittura di mistico».


Autore

 

Riccardo Frolloni

 
 
 

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