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  • Immagine del redattoreAss. Tramoontana

SENTIRSI DIVERSI - LE TASCHE DELLA GIOVINEZZA DI UN FUORI SEDE

Aggiornamento: 15 giu 2020


(...prologo…)


Quando si nasce nella terra dei forse, dell'abbastanza, si avverte l'incessante desiderio di andare via. Ci si convince che respirare la libertà offerta da posti lontani possa riempire quella fame, quella voglia del “diverso”, tanto derisa  da un luogo che poco ha da offrire, non solo economicamente, ma anche culturalmente.

Cosi s'insinua il bisogno di emigrare verso altri luoghi e probabili fortune, con una valigia di sogni e le tasche della giovinezza riempite dal peso della vanità, dalla presunzione di un’esperienza solida e dai soldi dei nonni, regalati di nascosto, con un sorriso disegnato sul viso,  quasi portassimo anche i loro di sogni con noi. 


(...piano-sequenza…)


Ma cos'è un fuori sede? È solo chi sceglie di proseguire gli studi fuori dalla propria regione? La risposta è no. Il fuori sede è una scelta di vita, una sfida con se stessi, la sconfitta delle proprie radici, della propria anima; è la vittoria schiacciante nella corsa a ostacoli contro un paese che tarpa le ali della creatività.

Se chiedeste a un fuori sede cosa ricordi del suo viaggio della speranza per raggiungere il freddo Nord, vi risponderebbe la solitudine che precede gli addii e che scorre lenta nell'attimo in cui si posano le valigie nella nuova stanza. A chilometri dalla propria infanzia, da un'adolescenza che sa di mare, di foreste d'ulivi, di pranzi di famiglia chiassosi ma essenziali.

Il 20 agosto 2017 lasciavo un pezzo di me nella casa in cui ero cresciuto, in un paese di odi et amo con la malinconia d'un età che ancora non mi apparteneva e il coraggio irresponsabile ma travolgente dei 18 anni. Le persone a me care le avevo salutate il giorno prima, come a illudermi che tutto ciò non fosse un addio.

1200 km, 2 pacchi di sigarette e svariate birre dopo ero in Piemonte.

Mi sono trasferito, come fanno in molti, per proseguire gli studi, abitando per un anno nella città di Savigliano, sede della mia facoltà, la quale era nata nel cuore di un ex convento, dove il mistico si fonde con la scienza, la storia con l'avvenire.

Quegli stimoli, l'ebbrezza dell'ignoto, del nuovo,  invitavano i pensieri in un tango di suoni, colori, profumi a me sconosciuti; sguardi curiosi e amicizie fraterne sbocciavano spontanei come i fiori del chiostro nel quale passavamo le ore a studiare, fumare e bere caffè edulcorati da confidenze e frammenti del nostro essere celati allo sguardo di chi ci conosceva da anni, ormai distanti per poterli vedere.


Dov'è allora la difficoltà tanto rimarcata dai racconti di chi torna a casa per le feste?

Quella di scoprire che il diverso che tanto si insegue, affannosamente , ha un rovescio della medaglia: le persone mancano di calore, vivono incastrati in una frenesia che osteggiano come simbolo di efficienza, di perfezione, salvo odiarla, appena sciolti dal collare dell'apparenza.

Per chi viene da una terra d'accoglienza come la nostra, di bar sport affollati, di vicini di casa che “mi fai il caffè?” tutto sembra monotono, grigio, sterile.

Ho terminato quell'anno arrancando, mi ha tenuto a galla il sapere vicini, a un'ora di treno, amici di vecchia data. Come se non bastasse si è trasferita anche la mia famiglia, per lavoro, facendomi perdere il marchio di fuori sede.


Fu così che il 26 agosto 2018, vinta la borsa Erasmus, sono volato  con un biglietto di sola andata per il Portogallo: destinazione Bragança, a due ore da Porto. Sentivo questo incessante bisogno di fuggire da ciò che avevo vissuto fino ad allora, come fosse un peccato mortale fermarsi. Mi ero ammalato di frenesia senza rendermene conto. Ciò che ricordo di quell'anno sono fiumi di alcol, la libertà del sesso, la malinconia del fado portoghese, la felicità del funk brasiliano, gli esami in portoghese e le notti trascorse su un balcone di nostalgia a chiedermi se stessi facendo le scelte giuste. Stavo sperimentando sulla mia pelle cosa intendessero i portoghesi con “Saudade”.

E’ lì che mi sono accorto di come il “diverso”, seppur abbellito dalla multiculturalità, covava la stessa invidia che avevo lasciato al mio paese natale, le stesse visioni miopi e le stesse persone che marcano la differenza tra usanze e costumi delle loro terre.

Oltre alla carriera universitaria in regola, una borsa di merito per i successi ottenuti e una nuova lingua appresa, quella terra mi ha donato molto di più: mi ha  insegnato ad amare e a perdonarmi, a chiedere scusa, a piangere quando rimetti i piedi nel tuo Paese per la gioia di essere tornato e la tristezza di un capitolo che sai essersi ormai chiuso.



 

(...epilogo..)


La differenza ricercata con tanta energia non era altro che il bisogno, inconscio, di dover crescere, di dover essere io differente e non il mondo nel quale vivevo. Per tutto quel tempo sono scappato da me stesso, nell’illusione che solo altrove, in un indefinito altrove, ci fosse la risposta alla domanda che mi sono posto per tutto il tempo: che forma ha il diverso e dove si trova?

Ora abito con i miei genitori, sempre in Piemonte,  lontani da dove siamo nati, con la consapevolezza dei nuovi rapporti da dover  allacciare e altri più vecchi da curare. Sono al punto di partenza con un bagaglio di vita che si riempie ogni giorno che passa e una ritrovata tolleranza nei confronti del “normale”.

Perché sapete in realtà cos'è un fuori sede?

Chi in cuor suo, promette a  se stesso di tornare a casa, perché, in fondo, tutto il mondo è paese.


Autore

 

Francesco "Breccia" Bresolin

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