È il 16 aprile, un giorno nato male per molti. Apro la conversazione con Chiara, mi dice che stava leggendo qualcosa su Luis Sepúlveda: è stato uno degli scrittori che ha accompagnato la sua vita e oggi si è aggiunto alle tante vittime della pandemia di questo 2020. E, proprio nel segno di Sepúlveda, si sviluppa la nostra chiacchierata.
L’attività e le tematiche trattate dal grande scrittore cileno hanno rappresentato una guida per il mestiere di Chiara Marangio: psicologa clinica specializzata nelle dinamiche legate al trauma (con una tesi di laurea in disturbo post-traumatico da stress in condizioni di guerra e tortura), formatrice e co-fondatrice dell’associazione Meticcia. Un’intensa attività che potrebbe sintetizzarsi, in maniera ancora più estrema, attorno alla parola testimonianza. «È un lavoro che include l’immigrazione, il diritto alla salute, la possibilità di costruire tra utenti stranieri e attori sanitari una relazione più adeguata e congrua, superando i limiti delle legislazioni italiane ed europee».
Con il contatto diretto con le persone tu hai imparato a conoscere il mondo. C’è, però, un problema collettivo: molte volte per descrivere la dimensione di un fenomeno i media si rifugiano nelle statistiche dimenticando le persone. Quanto è importante conoscere e comunicare le loro storie per capire?
La statistica è importante, ma è necessario avere persone. Cambia la prospettiva perché sei dentro una relazione da costruire con tutti i timori dell’estraneità dell’altro, indipendentemente dalla provenienza delle persone. Per certi versi senti mancare il terreno sotto i piedi, ma questo ti dà lo slancio per entrare nelle cose che l’altro mi fa conoscere. L’altro è un punto di vista da cui si legge una società. Il mio lavoro con i migranti, e quindi con chi ha dovuto lasciare la propria Terra Madre, mi aiuta a leggere il mondo. Il modo in cui il migrante viene trattato mi dice che cosa pensa questo paese, questa Europa, delle persone in generale e di certe fasce sociali.
Quanto viene ignorato oggi il trauma di chi arriva?
Anni fa poteva anche essere volutamente ignorato, ma oggi viviamo in un modo iperconnesso e quest’ignoranza non c’è più. Da due-tre anni finalmente sono state rese pubbliche le storie che provengono dall’altra parte del mare, pensa ad esempio ai campi in Libia che sono ormai presenti dal 2011. Passando poi al trauma: non è immaginabile. Quando parliamo di migranti abbiamo corpi lesi, menti lese, appartenenza a un popolo che viene distrutta. Ci troviamo con stimoli particolarmente intensi, imprevedibili e non elaborabili da parte delle persone. La partenza è dettata da una fortissima domanda di vita, di diritto di esistenza, e nella maggior parte dei casi si scontra con sofferenze indicibili. Il mio mestiere è fatto anche di questo: raccogliere queste storie, andare all’inferno insieme e cercare di risalire sempre insieme. Il fatto che se ne parli, magari in maniera un po’ incerta, a tratti fantasiosa, non so se sia legato a un fatto di ignoranza inteso come ignorare proprio la questione o forse sia funzionale al nostro sistema che tende a tenere all’esterno alcune fasce di popolazione, tra cui il migrante. Il nostro sistema europeo, tra l’altro, fa una cosa peggiore: ri-traumatizza, tiene le persone in sospeso, non le fa mai abitare un territorio, ma le fa sentire continuamente espulse e diverse.
Ti dico una cosa forte: oggi il migrante rappresenta nell’immaginario sociale un’alterità alla pari di quello che erano i matti negli anni ’70. Il nuovo matto ormai da tempo è il migrante perché dice la verità. Superando la frontiera, mette a rischio la fortezza Europa, entra in crisi il concetto d’identità e appartenenza nazionale. E la maniera di trattare i migranti ci dice come un paese pensa all’essere umano in generale, ci racconta il pensiero filosofico che è dentro la politica. Per me questo è un filtro attraverso cui vedere il mondo.
Cosa cambia nel lavorare con pazienti che vengono da culture diverse rispetto alla tua?
In realtà io penso che ognuno di noi abbia una cultura. Dipende da cosa intendiamo per questo concetto: fino a qualche tempo fa (e ancora resiste) c’era la visione di cultura come un contenitore all’interno del quale ci sono usi, costumi e significati condivisi in un tempo/spazio. È una visione che critico da sempre: ci sono delle dimensioni culturali legate ai territori, ma anche quelle cambiano nei vari contesti. Non possiamo dire che i marocchini sono fatti in un certo modo, dal momento che il Marocco è un territorio molto vasto con diversi status economici e sociali: ci sono le campagne, le città, le professioni, gruppi sociali diversi e anche lingue diverse. Semplificando, oggi noi parliamo di culture altre. Nello stesso modo anche io e te abbiamo culture altre. Per me cultura è una forma dinamica, continuamente in divenire, di costruzione di significati che hanno a che fare con l’ambiente, la dimensione di comunità, di appartenenza allo Stato, a un continente. E con aspetti propriamente individuali.
Quindi la parola dinamica, o meglio, lo sguardo dinamico diventa cruciale per conoscere il mondo?
Sì, perché è importante usare questa parola? Perché implica la sospensione del giudizio, c’è movimento, c’è la dimensione del divenire in cui niente è scontato. E più sei lontano dalle tue certezze nell’andare incontro all’altro, mentre l’altro viene da te, più questo aiuta a costruire un terzo spazio in cui entrambi ci conosciamo nella nostra reciproca dimensione culturale, quindi arriveremo a costruire un vocabolario in comune e camminare insieme. Camminare insieme, per me, è la cura, la terapia che conduco con le persone. Ma la terapia non deve essere vista come un qualcosa solo da studio, da stanza, ma molto più amplificato.
Come si porta tutto questo fuori dalla stanza in cui si svolge la terapia?
A curare non sono solo io con il mio mestiere, ma lo siamo tutti, ognuno dal suo punto di vista. Ognuno di noi è in contatto con gli altri e attraverso le relazioni esprime un’idea, il mondo che vorrebbe. E se desidera un mondo più sano è chiaro che ha cura e tenerezza nell’incontrare l’altro. Che sia un ente, una struttura, un gruppo o una persona o che sia invece un pensiero politico o sociale da nutrire, io mi muovo con i miei criteri di cura e provo a guardare le cose da questo punto di vista. Avere cura vuol dire anche provare a sviluppare dei processi culturali in alcuni territori. L’associazionismo, ad esempio, per anni mi ha dato questa fortuna: essere stimolata e stimolante, spingersi oltre i limiti e andare a mettere in crisi le nostre certezze. Perché dentro le nostre certezze ci sono moltissime anestesie.
Quant’è difficile per un migrante avere voce in questo scenario?
Non sappiamo essere casa. Eppure nella nostra storia noi siamo stati altro che un meticciato, ma non lo sappiamo riconoscere. La popolazione poi si adegua a quelle che sono le spinte politiche del momento. Il migrante non riesce mai ad assumere un livello di rappresentanza propria. Dei migranti parliamo noi e anche in questo momento il nostro parlare è ingiusto perché è meglio far conoscere la condizione degli stranieri da chi ha vissuto una condizione del genere. Invece no: siamo ancora costretti a parlare per loro, però è anche vero che nel nostro territorio, dal livello locale a quello nazionale, ci sono delle bellissime realtà che cercano di fare il contrario: ascoltare il significato che i migranti danno ai loro diritti e costruire una narrazione nuova in cui siano i migranti stessi ad assumere voce. Che è anche il senso del lavoro che faccio con la terapia: fare in modo che siano le persone a diventare attori di sé.
Quando siamo noi a parlarne non corriamo il rischio di essere dei filtri?
Noi siamo testimoni, non dobbiamo essere filtri. Io ho imparato tutto dalle persone che ho incontrato e che incontro, indipendentemente dalla provenienza di tutti i pazienti. Io li chiamo proprio pazienti non perché sono sofferenti, portatori di pathos, ma perché hanno la pazienza di raccontarmi e affidarmi le loro storie dolorose. Entrando in contatto con loro si sono sciolti i miei confini di appartenenza. Io non so più dire di dove sono, dentro di me porto tutte queste storie che vengono da ogni dove. E lì mi sento fortemente abitata. Mi piacerebbe che il nostro confine di appartenenza possa allargarsi al Mediterraneo e non per forza guardare al Mediterraneo come ostacolo o protezione. Qui a Sud abbiamo dei proverbi che sono identici a dei proverbi maghrebini. Nelle parole ci sono incontri costanti, così come siamo noi stessi a nascere dall’incontro con l’altro.
Autore
Intervista tra Chiara Marangio e Andrea Martina
L'ho trovato molto interessante
Sono Marzia, anche io psicoterapeuta che lavora con le vittime di tortura e altro trattamento disumano e degradante. Non è facile dare voce a quello che vediamo, eppure è sotto gli occhi di tutti. E forse è proprio questo che lo rende così complicato. Grazie Chiara per avermi fatto entrare nella tua camera, ne condivido ogni prezioso centimetro.