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Immagine del redattoreAss. Tramoontana

VIVERE IN TRE ATTI


Non volevo raccontare questa giornata, ma ho fatto una promessa.

Sono le 11 e mezzo di sera e mi trovo davanti al cancello di casa mia. Ho una maglietta gialla intrisa di sudore, il respiro è lungo, le mani afferrano le ginocchia. C’è silenzio in strada.

Oggi ho guardato la mia carta d’identità e ho scoperto di avere 30 anni.

Posso decidere di tornare indietro di ventiquattro ore, ventiquattro giorni, ventiquattro mesi. Non importa. Se me lo avessero chiesto non avrei certo immaginato di passare il 25 aprile del 2020 in questo modo.

Le prossime righe saranno un po’ troppo personali, non dovete leggere per forza. Scrivo perché ho fatto un patto con un amico. In realtà c’è anche un’altra ragione che si tiene a braccetto con l’amicizia: è l’idea di arrivare tra dieci anni a leggere il racconto di questa giornata e capire “come stavo a 30 anni adesso che ne sto facendo 40?”

Le parole, per me, sono impronte.

Perché sto correndo la sera del mio compleanno?

Il paese è ancora in quarantena. Questo vuol dire niente 25 aprile, niente festa patronale, niente luminarie, niente festa. Solo il silenzio della strada interrotto dai miei passi.

Sui manuali c’è scritto che la corsa è un movimento di caduta controllato, praticamente le parole esatte per descrivere le condizioni in cui sono arrivato a questo giorno.

Fin da bambino ho sempre pensato che Aristotele avesse risolto qualsiasi problema: tutto è riconducibile a un modello in tre atti. Ogni cosa: le storie, la vita, una qualsiasi giornata. Nasce, si sviluppa, conclude. Questa visione del mondo mi ha accompagnato sia nel mio lavoro di inventore di storie che nel leggere la realtà. Confido che a volte faccio confusione e le cose, spesso, si mescolano.

La vita in tre atti ha più senso. Sembra routine, ma non ci si annoia mai. Ad esempio, ci sono dei momenti in particolare che mi hanno sempre affascinato, su alcuni libri vengono riconosciuti come punti di rottura, varchi o momenti di passaggio da un atto all’altro. Addirittura su un manuale di scrittura creativa queste fasi vengono spiegate con la metafora del cancelletto: il protagonista chiude la porta di un mondo che si lascia alle spalle ed entra in una nuova dimensione.

E guardo ai miei trent’anni e mi chiedo se questo è veramente il giorno della rottura, del “cancelletto”. Forse potrò dirlo tra qualche anno, ma una certezza c’è: sono in pieno svolgimento centrale. È il momento in cui cresce la storia e si forma l’identità del protagonista.

Inizio a correre.

Anche la corsa si divide in tre atti. Vi aspettavate qualcosa di diverso?

C’è un inizio: il riscaldamento. Poi c’è lo svolgimento: il lavoro. E alla fine c’è il defaticamento. Se non capisci bene come comportarti in ognuna di queste tre fasi ne paghi il prezzo.

La quarantena mi impone di correre in prossimità della mia abitazione, questo vuol dire organizzare un percorso attorno agli isolati di casa mia, descrivere un circuito a forma di “8” che dovrò ripetere più e più volte per mettere insieme un allenamento decente. Ogni giro equivale a circa un chilometro e duecento metri. Accendo il cronometro, posiziono una bottiglietta d’acqua vicino al cancello di casa e inizia la mia corsa.

Penso al giorno del mio compleanno, a come lo sto concludendo. Non penso che mi succederà più di fare una cosa del genere: da 29 anni consecutivi, arrivata quest’ora, io tagliavo una torta o avevo comunque gente intorno in un clima di festa. Adesso c’è solo questo circuito a forma di “8”, il bip del cronometro che mi segnala ogni chilometro percorso e un paio di auto che sfrecciano per portare pizza a domicilio. Chi guida mi vede come un’allucinazione.

Il primo atto di questa giornata è stato con un bicchiere di vodka in mano e il telefono nell’altra, dove una ventina di amici connessi aspettavano la mezzanotte insieme a me per farmi gli auguri. Da quando è iniziata la pandemia le quotazioni della parola virtuale sono salite a vista d’occhio, ma io non ho fatto altro che sentire tutto in maniera diretta, fisica. Proprio per questo sarà difficile cancellare quella morsa allo stomaco, quel vuoto dentro che ho provato vedendo i quattro zeri sul segnale orario del cellulare.

Mezzanotte: malessere e sorrisi. Tutto insieme, giù d’un sorso.

Penso a questo mentre vado avanti con il mio riscaldamento, decido di concedermi tre giri. Dalla finestra di una casa si affaccia un mio vecchio compagno di scuola, riesco a sentire i suoi auguri giusto un attimo prima di sparire dietro l’angolo per poi ricominciare il giro. Durante il riscaldamento cerco di ricevere quante più informazioni possibili dal mio corpo. Voglio capire se riesco già ad avere un passo costante, se ci sono fastidi muscolari, se reagisco bene alla temperatura, quando incomincio a sudare. Mi è capitato spesso di sbagliare il riscaldamento, soprattutto durante le prime gare.

Mi è capitato anche di scrivere storie in cui all’inizio sparavo troppi fuochi e poi alla fine finiva tutto appallottolato nel cestino.

Sapete cosa proviamo ogni volta che iniziamo qualcosa di nuovo? Curiosità, attenzione, entusiasmo, paura. Grazie alla corsa sono riuscito a dare un significato a tutte queste parole.

Ci sono delle volte in cui inizio un allenamento senza un obiettivo ben preciso, lascio andare le gambe e vedo cosa mi regala la giornata. In altre circostanze, invece, parto già con un piano in testa. Stasera prevale la seconda scuola di pensiero: decido di fare delle ripetute. Per ottenere un circuito a “8” bisogna mettere insieme due cerchi, due isolati, il punto d’unione è casa mia. In quello più grande (700 metri) provo ad allungare il passo, in quello più piccolo (500 metri) rallento l’andatura.

È questo il mio svolgimento: il lavoro.

Quante ripetute dovrò fare? Bellissima domanda. Non faccio un allenamento del genere da più di un mese, solitamente può capitare di non avere le gambe giuste e alla fine si sceglie di proseguire la corsa con passo costante, senza scatti inutili. Oggi, ad esempio, sarebbe bello riuscire a fare almeno otto ripetizioni. Dopo la seconda ripetuta mi sento già morire.

Eppure questi sono gli allenamenti che mi piacciono di più: ripetute, scatti, salite, progressioni. Se c’è da soffrire riesco a uscirne fuori bene. Mentre sono al quinto chilometro rifletto su questa mia strana attitudine e mi viene inevitabile pensare a come affronto quello che mi capita tutti i giorni. Non sono mai riuscito a essere costante, ma appena si presenta una situazione d’emergenza riesco a essere lucido e a fare cose impensabili con una tranquillità disarmante. Quest’atteggiamento ha portato alcuni miei amici a chiamarmi Wolf, come il signore che risolve problemi in Pulp Ficiton. Il mio animale preferito è il lupo, ma questo non c’entra niente, o forse sì.

Non so quanto sia corretto vivere con un atteggiamento del genere, certe volte capita di farsi del male, ma io sto correndo e penso solo al fatto che la seconda ripetuta non riuscirò a terminarla: le gambe iniziano già a indurirsi, passo dal cancello di casa e guardo la bottiglietta. Potrei fermarmi. E invece aumento l’andatura e incomincio con la terza ripetuta.

Nello svolgimento centrale del mio compleanno c’è stata la lettura dei tarocchi. Anche qui la struttura in tre atti è tornata a farmi visita: leggere il passato, il presente, il futuro. Per l’ultimo di questi è ancora tutto da vedere, ma la persona che mi ha letto i primi due non ha fatto altro che alzarmi uno specchio e farmi guardare. Come dite? Non bisogna credere a questo genere di cose? Cosa vuol dire per voi credere, precisamente? Ecco: ne parliamo un’altra volta. L’ultima carta girata è stata l’Imperatrice. Anche la reazione di chi si trovava di fronte a me non la scorderò mai. I suoi occhi. Come a dire: “ecco il colpo di scena finale, il punto di rottura, il cancelletto”, tutto avvolto nel futuro.

Ho quasi finito la terza ripetuta, pensavo peggio. In questi giorni mi è capitato di passare spesso da una casa con un albero di limoni che sporge quasi sulla strada. Tra i rami guardavo una stella che si faceva spazio, luminosissima. Ogni sera sempre più in alto e bella, fino a superare i rami e liberarsi nel cielo.

E io quanto mi sento libero?

Arrivo ancora una volta vicino casa mia.

Ho un cane, un incrocio tra un pastore tedesco e qualcos’altro. Ogni volta che passo mi segue da dietro al cancello per poi aspettare il prossimo giro. Lui mi aspetta sempre.

Praticamente ho passato metà della mia vita in sua compagnia.

Quando arrivò a casa era nato da appena un mese, era il primo luglio del 2006 e dopo qualche giorno lo infilai in un cesto, lo portai con me sui sedili posteriori di una macchina e incominciammo una sfilata tra urla, gioia e clacson: Fabio Grosso aveva messo la palla nell’angolino, avevamo vinto i mondiali di calcio. Quella notte, guardando quel cucciolo dagli occhi verdi, pensai di avere un cane portafortuna. Poi però arrivarono anni non proprio fortunati, anzi, furono molto difficili e alcune cicatrici ancora fanno fatica a chiudersi. In seguito a quei traumi ho smesso di credere nella fortuna e ho incominciato a credere nella vita. E nel mio cane che è sempre lì ad aspettare il mio prossimo giro.

Inizia la quinta ripetuta e quella sensazione di pesantezza è di colpo sparita. Già, c’è un piccolo segreto nella corsa: è il serbatoio. Ce l’abbiamo tutti, o almeno, ce l’ha chi corre credendoci.

Il serbatoio è un deposito di energia che entra in circolazione proprio nei momenti di crisi. Come fare a riempirlo e averlo pronto per le emergenze? Serve pazienza. Dentro al serbatoio ci vanno: tutte le volte che non volevo svegliarmi e alla fine mi sono alzato alle 7 del mattino per correre, tutte le volte che avevo i crampi e sono riuscito comunque a continuare, tutte le volte che un corridore esperto mi ha dato un consiglio e sono stato zitto ad ascoltare, tutte le volte che sorridevo al traguardo, tutte le volte che sbagliavo un allenamento, tutte le volte che correvo con il maltempo, tutte le volte che volevo fermarmi e poi invece facevo ancora un chilometro.

Il serbatoio non è fatto di muscoli, ma di memoria.

E quando le gambe hanno accesso alla memoria puoi continuare all’infinito perché di colpo, io, non sono più stanco e posso fare ripetute a oltranza. È il momento in cui sei felice, è il momento in cui avverti armonia e ricordi anche le persone che ti hanno regalato l’armonia in questi anni, provi a ricordarle tutte: le facce, i nomi, i cognomi, i sorrisi. Chi c’è stato in questo giorno, chi no.

Ma la ripetuta è già finita, adesso c’è l’andatura lenta. Si sale e si scende. Gioia e dolori.

La corsa è la cosa che si avvicina di più alla vita.

Alla fine riesco a fare fino a otto ripetute, il cronometro segna 10 chilometri esatti e potrei andare avanti, ma ho imparato anche a non esagerare troppo quando c’è una buona condizione. Meglio avere due belle giornate consecutive che un lampo nel buio.

Posso godermi il finale, il defaticamento: un altro paio di chilometri prima di andare sotto la doccia.

E qui inizio a pensare a com’è finito questo strano compleanno e mi rendo conto di essere ancora dentro la storia di questo giorno, la corsa di stasera è diventata il finale del mio 25 aprile. Una vecchia amica che ha saputo curare la solitudine con la sua presenza. Per trovarla non dovevo far altro che allacciare bene le scarpe e girare attorno a casa mia, facendomi passare tutte le paure sui punti di rottura che ci sono stati e che verranno, tutte quelle domande che stasera, nel silenzio del mio paese che dorme, non hanno senso.

Sì, potrei correre ancora un po’, ma ho una voglia matta di tornare a casa e scrivere.

La maglietta gialla è intrisa di sudore, i muscoli sono caldi, delle nuvole d’aria escono dalla mia bocca.

Guardo quella stella, i miei trent’anni. La mia ombra sull’asfalto che mi segue, non mi fa gli auguri e mi dice solo Buona Strada.


Autore

 

Andrea Martina

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